“Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc, 14,33)
Se Luca scrivesse oggi il suo Vangelo, avendo presenti noi, cristiani di questo tempo, probabilmente scriverebbe: “Se uno pensa che essere cristiano significhi semplicemente andare a messa la domenica, fare ogni tanto un’offerta alla parrocchia, recitare qualche rosario e visitare qualche santuario… questo non può essere mio discepolo”.
E possiamo immaginare la sorpresa di tanti!
Ma poi Luca continuerebbe: “Se uno pensa di essere un cristiano impegnato perché partecipa al Consiglio Pastorale o collabora con la Caritas…, costui non può essere mio discepolo”.
Essere discepoli significa essere disposti a mettere in gioco la propria vita, significa dare tutto. La radicalità di questa pagina del vangelo di Luca si traduce per ogni discepolo, di ogni tempo, con la chiave della totalità. TUTTO, persino gli affetti familiari. Tutto! Include tutti gli esempi fatti prima e li supera.
Ciò con cui il vero discepolo si misura è il suo rapporto con il Maestro; il suo punto di riferimento è il modo con cui Gesù si è comportato, lui che per amore del Padre e di tutti ha consegnato la sua vita sulla croce.
La condizione per essere discepoli è mettere il Signore Gesù, la relazione con lui e il suo esempio al di sopra di ogni altra cosa.
La sequela non è uno scherzo, né un accessorio della vita cristiana: Gesù ci dice che è l’unico modo di essere con lui.
Forse allora occorre ripensare la figura del discepolo e il suo profilo evangelico. Il discepolo è uno che:
- accoglie una Parola esigente sapendo che è parola di vita eterna;
- percorre un cammino faticoso e duro, faticoso come quello della croce, sapendo che è l’unico che porta alla piena realizzazione di sé;
- si distacca dai suoi beni per guadagnare la libertà di chi non attacca il cuore a nulla;
- rinuncia perché ha trovato!
Il suo vero tesoro è il Signore Gesù.