“Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui” (Luca 20,38)
I sadducei si cimentano in un apologo paradossale, quello di una donna sette volte vedova e mai madre, per mettere in ridicolo la fede nella risurrezione. Lo sappiamo bene che non è facile credere nella vita eterna. Forse perché la immaginiamo come durata anziché come intensità. Tutti conosciamo la meraviglia della prima volta che abbiamo scoperto, gustato, visto, amato… poi ci si abitua.
L’eternità è non abituarsi, è il miracolo della prima volta che si ripete sempre. La piccola eternità in cui i sadducei credono è la sopravvivenza del patrimonio genetico della famiglia, così importante da giustificare il passaggio di quella donna di mano in mano come un oggetto con il fine di assicurarne la discendenza. Gesù invece ci rivela che non una modesta “eternità biologica” è inscritta nell’uomo, ma l’eternità stessa di Dio.
Che cosa significa infatti “vita eterna” se non la stessa vita dell’Eterno?
Ed ecco: “poiché sono figli della risurrezione sono figli di Dio”, vivono cioè la sua vita. Alla domanda dei sadducei : “Di chi sarà moglie?” Gesù risponde: “Quelli che risorgono non prendono né moglie né marito”. Gesù non dice che finiranno gli affetti e il lavoro gioioso del cuore. Anzi, l’unica cosa che rimane per sempre, ciò che rimane quando non rimane più nulla, è l’amore (1Cor 13,8). I risorti non prendono moglie o marito, e tuttavia vivono la gioia, umanissima e immortale, di dare e ricevere amore: su questo si fonda la felicità di questa e di ogni vita. Perché amare è la pienezza dell’uomo e di Dio.